La Corte Costituzionale, con la sentenza del 22 ottobre 2012, n. 237 è stata chiamata a verificare la legittimità costituzionale dell’art. 517 c.p.p., in relazione agli artt. 3 e 24, secondo comma, Cost., nella parte in cui non prevede che l’imputato possa chiedere al giudice del dibattimento il giudizio abbreviato relativamente al reato concorrente contestato in dibattimento, quando la nuova contestazione concerne un fatto che non risultava dagli atti di indagine al momento dell’esercizio dell’azione penale, ovvero quando si tratti di fatto emerso solo nel corso dell’istruzione dibattimentale.
Come già rilevato dalla Corte (con la sentenza n. 333 del 2009), la disciplina delle nuove contestazioni dibattimentali si presenta coerente con l’impostazione accusatoria del vigente codice di rito. In un sistema nel quale la prova si forma ordinariamente in dibattimento, detta disciplina mira, infatti, “a conferire un ragionevole grado di flessibilità all’imputazione, consentendone l’adattamento agli esiti dell’istruzione dibattimentale. L’istituto risponde, per questo verso, a ragioni di economia processuale, con le quali contrasterebbe un regime di generalizzata retrocessione del procedimento a fasi o stadi precedenti“.
La tutela di tali ragioni, secondo i giudici costituzionali, non può, tuttavia, non tener conto delle contrapposte esigenze di salvaguardia del diritto di difesa, del resto esplicitamente richiamate dalla pertinente direttiva della legge delega per l’emanazione del nuovo codice (art. 2, numero 78, della legge 16 febbraio 1987, n. 81, recante «Delega legislativa al Governo della Repubblica per l’emanazione del nuovo codice di procedura penale»). Rispetto al nuovo tema d’accusa contestato in dibattimento, l’imputato rischia, infatti, di vedersi privato del complesso delle facoltà difensive che avrebbe potuto e dovuto esercitare nel segmento procedimentale antecedente la variazione dell’imputazione.
La contestazione del reato concorrente, operata ai sensi dell’art. 517 c.p.p., costituisce un atto equipollente agli atti tipici di esercizio dell’azione penale (art. 405, comma 1, c.p.p.). È fonte, dunque, di ingiustificata disparità di trattamento e di compromissione delle facoltà difensive, in ragione dei tempi e dei modi di formulazione dell’imputazione, la circostanza che, a fronte di tutte le altre forme di esercizio dell’azione penale, l’imputato possa liberamente optare, senza condizioni, per il giudizio abbreviato, mentre analoga facoltà non gli sia riconosciuta nel caso di nuove contestazioni, se non nelle ipotesi – oggetto della sentenza n. 333 del 2009 – di modifiche tardive dell’addebito sulla base degli atti di indagine.
Quanto, infine, alla disparità di trattamento tra giudizio abbreviato e altri riti alternativi, denunciata come lesiva dell’art. 3 Cost., non sussiste, secondo il giudice delle leggi, quella relativa al “patteggiamento”; la sentenza n. 265 del 1994, ha, infatti, assicurato all’imputato la possibilità di chiedere l’applicazione della pena solo nel caso di nuove contestazioni dibattimentali “tardive”. L’assetto è, pertanto, pienamente simmetrico a quello attualmente valevole per il giudizio abbreviato, dopo la sentenza n. 333 del 2009.
Il discorso è diverso quanto all’oblazione, avendo, con la sentenza n. 530 del 1995, la Corte dichiarato costituzionalmente illegittimi gli artt. 516 e 517 c.p.p., per violazione degli artt. 3 e 24, secondo comma, Cost., nella parte in cui non prevedevano la facoltà dell’imputato di proporre domanda di oblazione relativamente al fatto diverso e al reato concorrente contestati in dibattimento: ciò, indipendentemente dal carattere “patologico” o “fisiologico” della nuova contestazione.
L’art. 517 c.p.p. va dichiarato costituzionalmente illegittimo, nella parte in cui non prevede la facoltà dell’imputato di richiedere al giudice del dibattimento il giudizio abbreviato relativamente al reato concorrente emerso nel corso dell’istruzione dibattimentale, che forma oggetto della nuova contestazione.
(Altalex, 31 ottobre 2012. Nota di Simone Marani)