Casa Pen, sez. VI, sentenza 29.07.2014 n° 33452. Con la sentenza 8 maggio – 29 luglio 2014, n. 33452 (Pres. De Roberto, Rel. De Amicis) la Sesta Sezione Penale della Corte di Cassazione ha affermato che risponde del reato di sottrazione di minori ex art. 574 c.p. il coniuge separato che, all’insaputa e contro la volontà dell’altro coniuge, si allontana e trasferisce la residenza del figlio minore in un altro Comune. La pronuncia in parola prende le mosse dal giudizio instaurato nei confronti di una madre che nel settembre del 2007 si allontanava dalla casa coniugale, portando con sé la figlia di anni dieci, all’insaputa e contro la volontà del marito e conducendola presso il luogo in cui viveva la nonna materna, ad oltre 600 km dal luogo di residenza abituale. Qui, la donna iscriveva la figlia alla scuola di zona e ne trasferiva la residenza, senza coinvolgere il marito nella scelta: quest’ultimo, infatti, veniva a conoscenza del trasferimento della minore nella nuova località e del fatto che si trattasse di una permanenza durevole solo ad eventi avvenuti, dopo aver inutilmente tentato di contattare la figlia per alcuni giorni. Altresì, il padre aveva ricevuto rassicurazioni circa la possibilità di vedere la figlia in occasione della cerimonia di apertura dell’anno scolastico, prevista per il giorno successivo al trasferimento. In particolare, la decisione della donna si poneva in aperta violazione con quanto stabilito in sede di separazione coniugale, atteso che la sentenza prevedeva una serie di incontri tra padre e figlia, modulati sul presupposto del comune luogo di residenza e programmati con una frequenza di fine settimana alternati e di pomeriggi infrasettimanali. Nei primi sei mesi dopo l’allontanamento – racconta la sentenza in commento – il padre riusciva a vedere la figlia solo una volta al mese, circostanza che conduceva il Tribunale a rivedere in via provvisoria le modalità di frequentazione della minore con il padre. L’imputata, con sentenza della Corte di Appello di Roma, che confermava nel merito la decisione emessa dal Tribunale, veniva condannata per i reati, unificati ex art. 81 c.p., di cui agli artt. 574 c.p. e 388, commi 1 e 2 c.p., atteso che – nelle parole dei Giudici – “risponde del delitto di sottrazione di persona incapace il genitore che, senza il consenso dell’altro, porta via con sé il figlio minore, allontanandolo dal domicilio stabilito, ovvero lo trattiene presso di sé, allorquando tale condotta determina un impedimento per l’esercizio delle diverse manifestazioni di potestà dell’altro genitore […]”. La fattispecie incriminatrice di cui all’art. 574 c.p. nelle parole della giurisprudenza. Per meglio comprendere la portata interpretativa della sentenza che s’intende qui commentare, giova soffermarsi – brevemente – sugli elementi costitutivi della fattispecie penale di cui all’art. 574 c.p., così come elaborati nel tempo dalla giurisprudenza di merito e di legittimità. In primo luogo, affinché la condotta di uno dei due coniugi possa integrare l’ipotesi criminosa prevista dall’art. 574 c.p., è necessario che il comportamento dell’agente porti ad una globale sottrazione del minore dalla vigilanza dell’altro, permanente o temporanea, così da impedirgli l’esercizio della funzione educativa e dei poteri inerenti all’affidamento, rendendo impossibile ciò che gli è stato conferito come ufficio dall’ordinamento nell’interesse del minore stesso e della società [1]. Si tratta, infatti, di un reato plurioffensivo, lesivo non solo del diritto (potere-dovere) di chi esercita la potestà genitoriale, ma anche del diritto del minore a vivere secondo le determinazioni del genitore stesso e nell’habitat naturale stabilito da entrambi, sia nel caso di matrimonio sussistente, che nel caso di famiglia di fatto [2]. Il reato in parola – inoltre – non si configura come istantaneo, ma è necessario che l’impedimento dell’esercizio dell’altrui potestà si protragga per un periodo di tempo rilevante, atteso che la sottrazione o la ritenzione del minore all’altro coniuge e l’allontanamento dall’ambiente di abituale dimora non possono ritenersi immediatamente lesive dell’interesse dell’incapace; ciò in quanto, per altro verso, tali condotte costituiscono esse stesse esercizio di una potestà sul minore, sebbene recessive rispetto a quella di altro titolare [3]. In tali ipotesi, il compito del giudice consiste nell’individuare la linea di demarcazione esistente tra le manifestazioni tipiche dell’esercizio della propria potestà ed il comportamento che si configuri come diretto a contrastare il diritto dell’altro, dovendosi considerare, a questo fine, la gerarchia che la stessa legge pone tra le potestà e – ove sussistano – le regole che il giudice ha eventualmente statuito con i provvedimenti di affidamento del minore. Quanto, invece, all’elemento soggettivo del reato di sottrazione di persone incapaci, si osserva come – da tempo – la giurisprudenza lo individui nella coscienza e volontà di sottrarre il minore, nel senso che l’agente deve avere la consapevolezza di realizzare una situazione antigiuridica mediante la ritenzione dell’incapace, attuata con un comportamento sempre attivo, diretto a mantenere l’esclusivo controllo sullo stesso [4] [5]] L’elemento soggettivo del delitto in parola, quindi, è integrato dal dolo generico e consiste nella coscienza e volontà di sottrarre il minore all’altro genitore esercente la relativa potestà, e di trattenerlo presso di sé contro il volere di quest’ultimo, così da impedirgli lo svolgimento della funzione educativa e dei poteri derivanti dall’affidamento [6]. Per quanto riguarda il soggetto attivo del reato, secondo costante giurisprudenza il delitto di sottrazione di persone incapaci può essere commesso dal genitore nei confronti dell’altro, atteso che, in mancanza di uno specifico provvedimento giudiziario che affidi i figli ad uno dei due, entrambi i genitori sono contitolari dei poteri-doveri disciplinati dall’art. 316 c.c.[7]; in tal senso, infatti, l’attribuzione congiunta della potestà sui figli minori, esercitata di comune accordo, non esclude la configurabilità del reato di cui all’art. 574 c.p., a carico del genitore che sottragga il minore all’altro [8]. Ciò vale anche nel caso in cui si sostenga di aver avvertito l’altro genitore del posto in cui si trovava il minore e di aver sempre garantito un contatto telefonico tra i due, giacché si determinerebbe in ogni caso un grave impedimento allo svolgimento delle diverse manifestazioni in cui si articola la potestà genitoriale [9]. Soggetto attivo del reato in oggetto, allora, può essere anche l’affidatario, poiché la titolarità della potestà continua a permanere nei confronti dell’altro, atteso che questi mantiene il potere-dovere di interloquire nell’assunzione della decisioni di maggiore importanza per i figli e di vigilare sulla loro istruzione ed educazione, ai sensi di quanto disposto all’art. 155 c.3 c.c. [10]. Quanto detto, però, non vale nel caso in cui l’allontanamento della moglie dalla casa familiare, con il figlio minore e senza il consenso dell’altro genitore, sia dovuto alle continue violenze cui la stessa è sottoposta ad opera del marito [11]. In tale ipotesi non sarebbe configurabile il dolo generico del delitto di cui all’art. 574 c.p., consistente – come detto – nella coscienza e volontà di realizzare una globale sottrazione del minore alla sfera di controllo dell’altro coniuge. Rilevato l’orientamento de quo, pressoché univoco in giurisprudenza, si segnala come, al contrario, la dottrina maggioritaria escluda il reato in parola nel caso di sottrazione dell’incapace da parte del genitore. A supporto di tale tesi, si sostiene principalmente che il comportamento di disposizione del minore da parte di un genitore non costituirebbe che “una delle possibili esplicazioni della potestà di cui è contitolare e che un eventuale contrasto con la volontà dell’altro genitore non sarebbe pertanto sufficiente a rivestire l’agente della qualifica di soggetto attivo del reato di cui all’art. 574 c.p., né a qualificare come sottrazione di incapace il suo comportamento” [12] [13]. Altra parte della dottrina ritiene, invero, che la contitolarità della potestà genitoriale non possa assumere i contorni di un diritto di disposizione del minore da esercitarsi in via disgiunta da parte dei genitori: infatti, dall’esame del codice civile risulta chiaro che la regola dell’esercizio di comune accordo della potestà genitoriale ex art. 316 c.c. fondi il sistema civilistico dell’insieme di poteri e doveri genitoriali, di cui il riflesso costituzionale all’art. 30 Cost.. Qualora sorgano contrasti tra i genitori su questioni di particolare importanza si può ricorrere informalmente al giudice e, in caso di abuso della potestà e della violazione dei poteri ad essa inerenti, il giudice può sanzionare il genitore con la decadenza dalla potestà ed adottare tutti i provvedimenti necessari ex art. 333 c.c. [14]. Alla luce del dato normativo fornito dal combinato disposto di cui agli artt. 316, 333 c.c. e 574 c.p., allora, i rimedi previsti in sede civilistica – che soccorrono nel caso di utilizzo improprio delle facoltà conferite dalla contitolarità della potestà – sembrano cedere il passo al rimedio della sanzione penale, allorquando tali facoltà vengano utilizzate in modo gravemente distorto: sembrerebbe, pertanto, che il legislatore abbia voluto mantenere due diversi livelli di protezione in relazione alla gravità delle condotte poste in essere dal genitore nell’esercizio dei suoi doveri-poteri [15] [16]. Quanto, infine, al possibile concorso con altri reati, si rileva come la giurisprudenza ritenga che il reato di sottrazione di persone incapaci possa concorrere con altre fattispecie delittuose qualora, per le modalità del fatto, si venga a ledere non solo la potestà dei genitori o dei tutori, ma anche un bene giuridico diverso. Si ritiene, in primo luogo, che possa esservi concorso con il reato di sequestro di persona di cui all’art. 605 c.p., quale norma posta a tutela della libertà di locomozione, della libertà fisica e di movimento in un dato spazio, come tale intrinsecamente distinta dalla fattispecie penale di cui all’art. 574 c.p. Perché possa dirsi configurato il sequestro di minore, infatti, non è sufficiente la ritenzione dello stesso contro la volontà del genitore, ma è necessaria anche la limitazione della sua libertà personale [17]. Invero, l’orientamento della Suprema Corte non appare univoco sul punto: secondo l’orientamento più risalente, infatti, integrerebbe il delitto di cui all’art. 574 c.p. e non quello del sequestro di persona di cui all’art. 605 c.p., la condotta di chi sottrae al genitore il figlio di età inferiore ai quattordici anni mediante rapimento, giacché il diritto a realizzare la propria personalità nell’habitat naturale della famiglia troverebbe tutela nella previsione incriminatrice della sottrazione di persone incapaci, che punisce un reato appartenente alla categoria dei reati contro la famiglia [18] [19]. Inoltre, pur essendo ormai pacifico che il reato di cui all’art. 605 c.p. sia diretto a garantire la libertà fisica della persona, intesa come libertà di movimento e di locomozione [20], si osserva come appaia di dubbia qualificazione il rapimento del neonato, attesa la sua incapacità di locomozione autonoma e di manifestazione verbale del proprio dissenso: in tal caso, infatti, il dissenso può essere espresso dal solo genitore e, pertanto, può essere valutato ai fini della violazione dell’art. 574 c.p. e non anche della violazione dell’art. 605 c.p.. In secondo luogo, una parte della giurisprudenza ritiene configurabile il concorso formale tra l’art. 574 c.p. e l’art. 388 c.p. (che punisce l’elusione di un provvedimento del giudice), in quanto le due norme sono poste a tutela di beni diversi: se, infatti, l’art. 574 c.p. è diretto a salvaguardare la famiglia dalle offese alla potestà dei genitori, l’art. 388 c.p. intende tutelare l’adempimento dei provvedimenti giudiziari, anche in materia di affidamento dei minori ad un coniuge [21]. In tal senso, la Corte ha chiarito che – nell’applicazione delle due diverse norme – “ricorre l’ipotesi di reato previsto dall’art. 574 codice penale nel caso in cui il genitore sottrae il figlio all’altro portandolo in un paese lontano, ed impedendo ogni rapporto personale tra i figli e il genitore, mentre ricorre l’ipotesi del reato previsto dall’art. 388 codice penale nel caso in cui il genitore affidatario non ottemperi alle prescrizioni del giudice civile, non consentendo, ad esempio, nel giorno fissato, la visita dell’altro genitore o modificando arbitrariamente le modalità di visita fissate dal giudice.” [22] [23]. Secondo altro orientamento, le norme di cui agli artt. 388 e 574 c.p. darebbero luogo ad un concorso apparente di norme, governato dal principio di specialità di cui all’art. 15 c.p.; le suddette fattispecie tutelano obiettività giuridiche diverse, che si realizzano congiuntamente in caso d’inosservanza di un ordine del giudice avente ad oggetto esclusivo la consegna di un minore a persona che eserciti su di lui la potestà genitoriale: solo in tal caso, infatti, il reato di sottrazione verrebbe assorbito in quello di mancata esecuzione dolosa del provvedimento. Il D.lgs. 28 dicembre 2013, n. 154, la soluzione della Corte di Cassazione al caso di specie e i precedenti giurisprudenziali. Dopo l’entrata in vigore della legge delega n. 219 del 2012, volta a superare ogni residua distinzione tra figli legittimi e naturali, è stato emanato il decreto legislativo n. 154 del 2013 che, intervenendo tanto sul codice civile quanto sulle leggi speciali, attua nell’ordinamento il principio di unicità dello status di figlio [24][25]. “Il principio ispiratore che caratterizza tutta la nuova legge n. 219/2012 sulla filiazione è quello della prevalenza dell’interesse del figlio, specie se minore, su ogni altro interesse giuridicamente rilevante che vi si ponga in contrasto” [26] [27]. Già ad una prima lettura del testo e delle relative modifiche apportate al codice civile, alle disposizioni di attuazione e a quelle transitorie, emerge chiara la volontà del legislatore di rendere (finalmente) effettiva l’eguaglianza giuridica tra figli, siano essi legittimi, naturali o adottivi: recita – a tal proposito – il nuovo art. 315 c.c. che “tutti i figli hanno lo stesso stato giuridico”, a prescindere dalla situazione giuridica dalla quale siano nati. La modifica agli artt. 74 e 258 c.c. – rispettivamente in materia di vincolo di parentela ed effetti del riconoscimento – rappresenta, poi, il passo necessario verso il definitivo superamento di quel regime differenziato esistente tra figli naturali e figli legittimi, mai modificato dalla riforma del diritto di famiglia del 1975. Il novellato art. 74 c.c., infatti, chiarisce che il vincolo sussiste tra le persone che discendono da un medesimo stipite, indipendentemente dal carattere legittimo o naturale della filiazione; con le medesime finalità, il comma 4 dell’art. 1 della legge ha novellato l’art. 258 c.c., affermando che il riconoscimento non si limita a produrre effetti per il genitore che l’ha effettuato, ma estende la propria efficacia anche ai parenti del genitore stesso. La riforma, quindi, ha il merito di ribaltare completamente la ratio della precedente disciplina, consentendo il generale riconoscimento dei figli [28] – purché ciò si coniughi con l’interesse superiore e preminente del minore – e perseguendo la logica di non far gravare sui figli le condotte e le scelte dei genitori [29]. “L’idea di base è, infatti, che il riconoscimento deve essere precluso, non in base alla condizione giuridica di irriconoscibilità del figlio, ma esclusivamente in base alla considerazione del suo interesse, finanche a stabilire che un divieto non ha motivo di esistere quando il riconoscimento è per il minore favorevole” [30]. La riforma in parola, allora, ruota attorno alla nozione di interesse del minore, considerato nel senso di limite oggettivo alle decisioni degli operatori del diritto – giudici, interpreti o servizi sociali – che non può essere superato ogniqualvolta si debba decidere in materia di rapporti di famiglia, suscettibili di produrre conseguenze sul piano della situazione giuridica di un minore. Ciò premesso, occorre individuare una possibile nozione di interesse del minore, al fine di riempire di contenuto le diverse previsioni normative e opere dogmatiche che utilizzano tale sintagma. “La preminenza dell’interesse del minore su qualsiasi altro interesse è stata tanto ripetutamente affermata, che può ritenersi ormai un dato assiomatico, che non abbisogna di particolare dimostrazione” [31], ma anche, “è una nozione magica […] e per quanto sia contemplata dalla legge, ciò che non viene previsto è l’abuso che se ne fa oggi” [32]. L’interesse del minore è, quindi, allo stesso tempo, dato assiomatico – verità evidente di per sé – e, per dirla alla Ronfani, nozione magica, non razionale, che consente di modellare l’intera struttura del diritto di famiglia [33]. E’ dato assiomatico in quanto, ad oggi, non esiste Paese dell’area occidentale che non lo richiami nell’ambito della legislazione familiare e minorile, connotandolo con aggettivi quali superiore, preminente, prevalente, esclusivo; è nozione magica poiché il suo contenuto è altamente indeterminato e si presta nel modo più assoluto a diverse interpretazioni e concettualizzazioni – anche in contrasto tra loro – e poiché risulta difficile renderne esplicito il contenuto in maniera univoca. L’interesse del minore, nell’ambito del linguaggio giuridico, viene utilizzato come clausola generale che si presenta all’interprete, secondo le parole di Alpa, “vera e propria scatola vuota”, consentendo un uso valutativo, politico e pericolosamente arbitrario della stessa, e comportando il rischio di una sua interpretazione ed attuazione strettamente collegata al sistema di valori presenti, in un dato momento, in un dato ordinamento [34]. Questa stessa assunzione apre a diversi problemi: occorre evitare che gli operatori del diritto – in primis i giudici –, chiamati a dare concretizzazione a tale nozione con riferimento a circostanze di fatto e individuali, non attuino interpretazioni del tutto discrezionali e non cerchino di imporre a livello interpretativo un determinato modello culturale o una prospettiva di assoluto relativismo. Secondo altri Autori, invece, con riferimento all’interesse del minore non si dovrebbe parlare di clausola o principio generale, bensì di vero e proprio diritto soggettivo ed individuale, richiamato dalla Convenzione dell’ONU sui diritti dell’infanzia del 1989 [35], la quale, all’art. 3, afferma che “in tutte la azioni riguardanti bambini/e, se avviate da istituzioni di assistenza sociale, private o pubbliche, tribunali, autorità amministrative o corpi legislativi, i maggiori interessi del bambino/a devono costituire oggetto di primaria considerazione”. Tale recepimento, quindi, consentirebbe di valutare l’interesse del minore all’interno del genus dei diritti umani e renderebbe possibile la sua qualificazione tra le prerogative fondamentali della persona umana. Che lo si qualifichi come principio o come clausola generale o come vero e proprio diritto soggettivo, in ogni caso l’interesse del minore è un dato presente e centrale in tutte le legislazioni familiari e minorili di numerosi Paesi, costituendo il principio cardine degli attuali modelli esistenti in materia di famiglia, che rispondono alle regole dell’autonomia e della libertà di scelta. In questo senso, infatti, dato il contesto essenzialmente neutrale all’interno del quale possono crearsi – e disfarsi – le relazioni di coppia, e in particolare quella matrimoniale, la regolamentazione data dal diritto si sofferma oggi, essenzialmente, sulle conseguenze derivanti dalla scelta di due soggetti di intraprendere una relazione affettiva e sessuale, costituendo l’interesse dei figli nati da un simile rapporto il limite esplicito, che non può in alcun modo essere leso o limitato dalla libera scelta dei genitori. Così individuata la ratio ispiratrice della riforma in parola, giova ancora osservare come, con i nuovi articoli introdotti col decreto legislativo, da 337-bis a 337-octies c.c., il nostro ordinamento si sia dotato di un corpo giuridico unico comune per i rapporti fra genitori e figli ed abbia – di conseguenza – individuato un solo riferimento normativo per le controversie genitoriali, di separazione, divorzio o interruzione di convivenza. In particolare, la prima conseguenza di questo cambiamento è stata la ridefinizione, nei codici e nelle leggi speciali, di alcuni termini: così il termine potestà genitoriale diventa responsabilità genitoriale, allineandosi alla definizione già elaborata ed accolta in sede europea, che qualifica il concetto di responsabilità genitoriale come l’insieme di “diritti e i doveri di cui è investita una persona fisica o giuridica in virtù di una decisione giudiziaria, della legge o di un accordo in vigore riguardanti la persona o i beni di un minore. Il termine comprende, in particolare, il diritto di affidamento e il diritto di visita” (art. 2, n. 7 Reg. CE n. 2201/2003) [36]. Il principio recepito è che la responsabilità genitoriale spetta ad entrambi i genitori, che la esercitano di comune accordo tenendo conto delle capacità, delle inclinazioni naturali e delle aspirazioni dei figli [37]: i genitori fissano la residenza abituale del minore, tanto nel caso di matrimonio, tanto in quello di genitori non coniugati che abbiano entrambi riconosciuto il figlio, ai sensi dell’ art. 316, c.3 c.c.. In caso di contrasto, inoltre, può farsi ricorso al giudice che, sentiti i genitori e disposto l’ascolto del figlio maggiore di 12 anni – ed anche di età inferiore, se dotato di sufficiente discernimento – suggerisce le “determinazioni che ritiene più utili nell’interesse del figlio e dell’unità familiare”. Il genitore che non esercita la responsabilità genitoriale, invece, “vigila sull’istruzione, sull’educazione e sulle condizioni di vita del figli”, ex art. 316 c.4 c.c.: tale previsione rappresenta l’apprezzabile tentativo di dare una disciplina unitaria della responsabilità parentale, sia nel caso di genitori coniugati, sia in quello di genitori non coniugati [38]. Tanto premesso, si percepisce la rilevanza che una siffatta riforma assume anche ai fini della determinazione delle condotte penalmente rilevanti ex art. 574 c.p. Nella sentenza in commento, infatti, i Giudici della Suprema Corte hanno precisato che, per non ledere il corrispondente diritto dell’altro genitore alla visita ed alla effettiva frequentazione del figlio, l’imputata avrebbe dovuto preventivamente rivolgersi al giudice civile, sollecitando la modifica del contenuto delle statuizioni adottate in sede di separazione, così come emerge dalle nuove disposizioni di cui all’art. 337 bis e 337 ter c.c., che ribadiscono e rafforzano il quadro delle regole della potestà genitoriale, da intendersi sempre meno come un “diritto” e sempre più come “dovere” posto a presidio dei diritti fondamentali della persona. Inoltre, nelle parole del Giudice il reato previsto dall’art. 574 c.p. è rivolto alla condotta del genitore che, contro la volontà dell’altro, sottragga il figlio per un periodo di tempo rilevante, impedendo l’esercizio della potestà genitoriale e allontanando il minore dall’ambiente d’abituale dimora. In altri termini, perché il reato sia integrato è richiesto che l’azione posta in essere dall’agente determini un effettivo impedimento dell’esercizio delle diverse manifestazioni della potestà del genitore [39] [40]: tale norma incriminatrice, infatti, tutela il legame tra minore e genitore in presenza del rischio che tale rapporto cessi a causa della condotta dell’altro soggetto esercente la responsabilità genitoriale. Non a caso la giurisprudenza ritiene configurabile – come anticipato – il concorso formale tra questo reato e quello di elusione di provvedimenti del giudice concernenti l’affidamento dei minori, ex art. 388 c.p., quale norma posta a tutela dell’efficacia del provvedimento giudiziario. Tra i precedenti giurisprudenziali coerenti con l’impostazione logico–normativa adottata dalla Sesta Sezione Penale nella sentenza in commento – ancorché precedenti all’entrata in vigore del D. lgs. 28 dicembre 2013, ud. 27.05.2013, n. 154 –, si intende, infine, richiamare la pronuncia n. 22911 del Pres. Agrò, Rel. Fidelbo [41]: l’imputato, nel proporre ricorso per Cassazione, denunciava l’erronea applicazione dell’art. 574 c.p., in quanto non vi sarebbe stata alcuna volontà di sottrarre la minore, atteso che il coniuge affidatario era a perfetta conoscenza del suo domicilio e si recava ogni giorno a scuola della figlia, con la quale si intratteneva. Secondo tale pronuncia, il reato previsto dall’art. 574 c.p. punisce la condotta posta in essere da uno dei coniugi che porti ad una globale sottrazione del minore alla vigilanza del coniuge affidatario, così non solo da impedirgli la funzione educativa ed i poteri insiti nell’affidamento, ma anche da rendergli impossibile quell’ufficio che gli è stato conferito dall’ordinamento nell’interesse del minore e della società [42]. Nella specie, la responsabilità dell’imputato è stata ritenuta sussistente, all’esito dei primi due gradi di giudizio, con esclusivo riferimento alla circostanza che la minore, affidata alla madre, sia stata “trattenuta” per circa due settimane dal padre presso la sua abitazione, omettendo ogni accertamento in ordine all’effettivo ostacolo che tale condotta avrebbe avuto sull’esercizio della potestà genitoriale da parte della madre. In particolare, secondo la Cassazione, non è chiaro “se il trattenimento abbia causato una radicale interruzione del rapporto della madre con la figlia, impedendo l’esercizio della potestà ovvero se, come assume il ricorrente, vi sia stata solo un’inosservanza del provvedimento giudiziario in ordine ai tempi del diritto di visita riconosciuto al padre”. Al contrario, la specifica e pacifica circostanza che la madre abbia incontrato la figlia ogni giorno, secondo il giudizio della Corte, escluderebbe la sottrazione e la limitazione dell’esercizio della potestà genitoriale, atteso che la minore non è mai stata allontanata realmente dalla vigilanza della madre. In conclusione, si osserva come la fattispecie penale in esame esca rafforzata nel suo intento punitivo alla luce delle recenti modifiche intervenute in materia di diritto di famiglia: il rapporto genitore/figlio, infatti, – superata la tradizionale barriera terminologica della potestà genitoriale – si ispira a valori di responsabilità, tali da spostare il baricentro della previsione incriminatrice sempre più verso l’interesse superiore del minore. Il superamento della vecchia disciplina del diritto di famiglia, allora, sembra completato: il bene giuridico tutelato dall’art. 574 c.p. è sempre più e solo il diritto del minore di godere della funzione educativa riconosciuta e richiesta dall’ordinamento al genitore e sempre meno il corrispondente diritto/potere di quest’ultimo.